29 Marzo 2024
JB | Torino è a un bivio, non è più la città industriale del Novecento e non è ancora la capitale a vocazione internazionale che dal 2006 ambisce a essere. Deve scegliere quale modello di città vuole diventare e togliersi dall'incertezza di questi ultimi mesi
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JB | Torino è a un bivio, non è più la città industriale del Novecento e non è ancora la capitale a vocazione internazionale che dal 2006 ambisce a essere. Deve scegliere quale modello di città vuole diventare e togliersi dall’incertezza di questi ultimi mesi. Il percorso di trasformazione iniziato quasi 25 anni fa non è completato: sotto la Mole si cerca una precisa identità.

Proprio quel percorso, a detta di alcuni, si sarebbe interrotto per la mancanza di visione a lungo termine della nuova amministrazione pentastellata che da giugno 2016 governa Palazzo Civico. Il primo a sollevare pubblicamente la questione è stato Luigi La Spina, in un editoriale apparso a inizio ottobre sul quotidiano La Stampa. Alla sua domanda «Che cosa sta succedendo a Torino?» hanno risposto, anche con severe prese di posizione, il mondo della ricerca, del commercio, dell’università.

Ne abbiamo parlato con il professor Valentino Castellani, sindaco della città per due mandati dal 1993 al 2001 e presidente del TOROC, il comitato organizzatore dei XX Giochi Olimpici Invernali del 2006.

Professor Castellani, lei che risposta ha dato alla domanda di Luigi La Spina?

Sono d’accordo con La Spina. Siamo in un momento di ambiguità e smarrimento. Se chiedessimo alla giunta che governa la città dove stiamo andando, ho dei dubbi che sarebbero in grado di rispondere. Manca una visione della rotta, di che cosa Torino vuole essere. Vuole essere una città con la vocazione internazionale, sì ma quali sono i modelli a cui ispirarsi? Credo che in questo momento la città non lo sappia. Certo, è anche un risultato della crisi di questi anni, anche i ceti dirigenti hanno più di una incertezza. Però manca la coralità della visione. Usando una metafora mi viene da dire che serve un timoniere e un equipaggio pronto a ricevere gli ordini. La barca galleggia, non ci sono più le tempeste di qualche anno fa ma serve disegnare e seguire una rotta.

La sconfitta alle comunali del 2016 del centrosinistra è stato un ulteriore motivo di smarrimento?

Già un anno prima delle elezioni ero preoccupato. Dopo 25 anni di governo della stessa parte politica è fisiologico che la gente senta il bisogno di cambiare. Ma non sempre si cambia in meglio. Il centrosinistra ha lasciato in mano all’opposizione e alla protesta la bandierina del cambiamento. Ma il cambiamento lo può fare anche chi governa. Piero Fassino è stato un buon sindaco, meno buona la conduzione complessiva che si è cristallizzata solo intorno allo “stare al governo”. Il centrosinistra non è stato capace di includere e coinvolgere in un progetto politico la generazione dei quarantenni. E i quarantenni sono saliti su un altro autobus che passava di lì, vuoto. Molte delle persone che hanno scelto i Cinquestelle non sono organiche a quella parte, ma era l’unica alternativa che hanno visto. Bisogna cogliere anche le dinamiche intergenerazionali per essere capaci di continuare a stare sulla scena. Altrimenti subentra un altro.

Chiara Appendino ha risposto, dicendo che la narrazione della città non dava giustizia a chi lavora e si impegna per Torino. Chi ha ragione?

Parlavano due linguaggi diversi. Appendino non ha detto cose sbagliate, ma ha fatto fotografia, ha fermato un fotogramma. Che non è il film. Il sindaco non ha risposto dove sta andando la città, ma ha detto che cosa è la città oggi. Torino viene da un passato recente di buon governo e l’amministrazione galleggia sui buoni numeri di chi l’ha preceduta. La domanda vera è un’altra, dove stiamo andando?

Quali sono allora i settori sui quali puntare e investire?

La manifattura intelligente, l’innovazione tecnologica, il turismo… Sono tutte scelte valide, ma bisogna sapere e decidere cosa fare. Nel 1993 noi parlavamo di cultura e di turismo e ci ridevano tutti dietro: erano due settori che allora sembravano nnon avere nulla a che fare con Torino. La città, il mondo del commercio, il settore imprenditoriale hanno impiegato 15 anni per far crescere il progetto cultura e turismo, facendolo però diventare il 10% del pil dell’intera area torinese. È il medio lungo periodo che costruisce un’identità, non sempre e solo le cose immediate.

Parlando di cambiamenti, com’era Torino nel 1958 quando Lei era studente?

Era una città completamente diversa. Io vivevo al Collegio Einaudi, ero un ospite della città. E Torino alle 11 di sera andava a dormire. Il sabato e la domenica era una città ferma, che riposava. Non riposava solo la gente, riposava proprio la città. In quegli anni comparivano i primi cartelli “Non si affitta ai meridionali” ed era una vera città-fabbrica, nel bene e nel male. Produceva centinaia di migliaia di posti di lavoro, trainava lo sviluppo industriale del paese. Era una città rigorosa, sabauda. E poi mi colpì il fatto che ad agosto, quando la Fiat chiudeva per ferie, la città diventava un deserto. In giro non c’era più nessuno. Bisogna aver vissuto quei periodi per capire il cambiamento che c’è stato. Oggi tocca alla generazione dei quaranta-cinquantenni raccogliere il testimone e inventare il futuro di Torino.

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