4 Ottobre 2024
Francesca Grassitelli | Fallire è il punto di partenza per il miglioramento, un atto fortemente umano. E in una realtà fatta di lobotomizzati all’ossessiva ricerca del successo, fallire potrebbe addirittura essere un atto rivoluzionario.
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Francesca Grassitelli

Nella società attuale la parola “salute” non implica più l’essere felici, non implica il piacere, né il benessere fisico e mentale. E’ anzi intesa in senso funzionale al sistema ed alla società. Due elementi che ci vogliono infelici, stanchi, ma ad alto tasso di rendimento.

Così, le persone e le cose vengono disposte come pedine nella loro combinazione più efficiente. E l’ozio diventa uno spreco di tempo: ma questo è un concetto pericoloso.
Lo diceva già Robert Louis Stevenson nel 1877, quando nel suo saggio “In difesa dei pigri” affermava che l’ozio non è il far nulla, ma il fare ciò che non è contemplato dalla classe dominante.
Difatti ogni persona creativa ha bisogno di riposare la mente per poter produrre delle idee. Ed al contrario, come ricorda il detto, “chi troppo studia matto diventa”.

Siamo per l’appunto una generazione di matti, all’ossessiva ricerca di qualcosa in cui eccellere.
Allora diventa indispensabile sfruttare ogni attimo che abbiamo a disposizione, rinunciare ad una chiacchierata, ad un caffè, addirittura mettere a tacere il proprio malessere, poiché non è lecito concedersi debolezze.

Nella società attuale riposo e successo sono due concetti che si escludono reciprocamente: pena, il fallimento.
Secondo questa retorica, per citare un articolo di The Vision, “un individuo dormiente è anche un individuo infruttuoso che, attraverso il proprio sonno, sottrae un monte ore inestimabile al suo impiego come ingranaggio inconsapevole della catena di produzione e, di conseguenza, un ostacolo alla compiuta realizzazione del cosiddetto Capitalism 24/7”.

Tutto attorno a noi ci ricorda costantemente quanto sia importante produrre, e così anche la nostra mente si programma su questa idea ossessiva.
E’ quello che accade alla protagonista della nuova serie targata Netflix, “La Regina degli Scacchi” (ne abbiamo parlato anche qui..). La serie ci racconta l’ascesa al successo della giovanissima Beth Harmon, che per gli scacchi mette da parte la sua vita adolescenziale, i suoi primi amori e il suo tempo libero.
A renderle chiara la sua ossessione è il monologo che le rivolge l’amico Harry Beltik nell’episodio 5, quando afferma che per lui gli scacchi non sono un’ossessione <<come dovrebbe essere se vuoi vincere tutto>>, come lo sono per la protagonista.
Poi le narra la storia di un vecchio scacchista, Paul Morphy, che cadde in preda alla paranoia. “Stava sveglio tutta la notte a Parigi, prima delle partite [..] e il giorno seguente giocava come uno squalo. [..] Lo chiamavano l’orgoglio e il rimpianto degli scacchi. E si ritirò a 22 anni”. Ormai esausto.

Siamo ossessionati dal successo e terrorizzati dalla possibilità di poter fallire. Tutto ciò, peraltro, è amplificato dai mezzi di comunicazione, poiché chi vince ha di norma più visibilità, e questa porta più potere.
Ma chi ha deciso che il fallimento ci rende meno individui? Dopotutto, fallire è il punto di partenza per il miglioramento, è ciò che al contempo ci debilita e ci sprona, è un atto fortemente umano. E in una realtà fatta di lobotomizzati all’ossessiva ricerca del successo, fallire potrebbe addirittura essere un atto rivoluzionario.

Eppure abbiamo interiorizzato questo gioco di potere, questa percezione. Abbiamo accettato di imporci delle esistenze sempre più stressanti, meno spontanee, scandite dalle tempistiche di una macchina che corre più veloce di noi.

Poi, arriva quell’imprevisto che ci impedisce di correre. E improvvisamente ci ricordiamo del messaggio di Euripide: attendersi l’inatteso. Ed è solo a questo punto, solo perché costretti a star fermi, che paradossalmente ricominciamo a respirare ad un ritmo più lento e più umano.

Viviamo in una profonda contraddizione, come aveva già osservato Alain Badiou, in “uno stato di cose brutale e profondamente ineguale, in cui l’esistenza tutta è valutata in termini soltanto monetari”. Questa realtà ci viene però presentata come uno stato ideale delle cose, soprattutto in nome del progresso che ne deriva.
Eppure, per riprendere una frase di Mark Fisher nel suo Realismo Capitalista, “in un simile contesto, anche aver successo significa fallire, poiché aver successo significa soltanto essere la nuova carne che nutre il sistema”.

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