29 Marzo 2024
JB | Raccontare la diffusione del coronavirus vuol dire soprattutto parlare di numeri. Ma è possibile fare informazione sul virus con i dati senza inseguire per forza le news dell'ultimo minuto?
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JB | Raccontare la diffusione del coronavirus vuol dire soprattutto parlare di numeri, di persone contagiate e ricoverate, di persone guarite. Di quei numeri che tutte le sere, intorno alle sei, il capo della Protezione Civile Angelo Borrelli dà notizia in una conferenza stampa che ha sempre più i tratti di un rituale mediatico. (www.protezionecivile.gov.it/)

Ma è possibile fare informazione sul coronavirus con i numeri e con i dati senza inseguire per forza le news dell’ultimo minuto?

In queste settimane se lo sono chiesti in molti, soprattutto giornalisti e analisti che provano a raccontare l’Italia ai tempi del virus senza strapparsi di mano l’ultimo bollettino medico.

I numeri per raccontare le storie delle persone

Una risposta ha provato a darla un gruppo di lavoro di DataNinja, azienda che dal 2012 si occupa di data literacy (alfabetizzazione dei dati, la capacità di trarre informazioni significative dai dati) e di data journalism.

«Fare data journalism -spiega da DataNinja Alice Coronanon implica per forza rincorrere l’ultimo numero, parlare di contagi e morti incerti, ma vuol dire anche denunciare una storia di massima rilevanza». E le storie sono quelle delle persone, di chi tutti i giorni rischia il contagio, non per incoscienza o superficialità. Ma perché deve lavorare.

Il virus raccontato dal NYT

Tra chi prova a raccontare l’emergenza partendo dai numeri -è l’esempio che riporta Data Ninja- c’è il New York Times che sulla sua edizione on line ha realizzato The Workers Who Face the Greatest Coronavirus Risk, una mappa interattiva capace di mostrare quali e quanti sono i lavori ad alto contatto fisico, potenzialmente più esposti al contagio.

Per una volta, insomma, si fa informazione concentrandosi non sul virus ma sulle persone.

I livelli di rischio sono stati calcolati utilizzando O’NET, una banca dati gestita dal Dipartimento del Lavoro che descrive vari aspetti fisici delle diverse occupazioni. Il database assegna un  punteggio a ogni occupazione, in base a parametri quali, ad esempio, la frequenza con cui si usa il telefono o se per eseguire un lavoro è necessario piegare il corpo.

Il coronavirus si sta diffondendo gli Stati Uniti – scrive il New York Times – e chi svolge una professione che prevede la vicinanza se non addirittura il contatto fisico con altre persone  è a maggior rischio di ammalarsi.

Le bolle e le professioni

La misura del rischio è graficamente rappresentata nella mappa attraverso una serie di bolle: ciascuna bolla è una professione e più grande è la bolla più persone esercitano quella professione.

La posizione verticale della bolla indica quanto spesso i lavoratori di una determinata professione sono esposti a malattie e infezioni. La posizione orizzontale misura invece quanto le persone sono vicine le une alle altre durante i loro giorni lavorativi.

Anche a una semplice lettura risulta evidente come gli operatori sanitari sono i professionisti a maggior rischio: possono contrarre malattie e infezioni ogni giorno e in genere lavorano molto (troppo) vicini gli uni agli altri e ai loro pazienti.

Molto vulnerabili anche tutte quelle persone che si occupano di cura e assistenza domiciliare agli anziani, la parte di popolazione più soggetta al coronavirus. Anche chi lavora al pronto intervento  – dicono le bolle – è ad alto rischio: basti pensare ai vigili del fuoco che nei giorni scorsi hanno prestato soccorso ai degenti di una casa di cura di Washington e che oggi sono in quarantena. In tutti gli Stati Uniti i paramedici stanno prendendo precauzioni aggiuntive quando rispondono a un possibile caso coronavirus.

Le misure per ridurre il rischio

A completare l’indagine statistica del NYT sono altri numeri, questa volta le previsioni dell’impatto del coronavirus sul mondo del lavoro. Con la crescita dei casi, anche negli USA molte aziende hanno iniziato a chiudere uffici e a sospendere le produzioni, con una ricaduta pressoché immediata sui lavoratori e sull’occupazione.

A fronte di politiche di congedo e di tutela, una grande fetta della popolazione non ha paracaduti e protezioni che possano integrare la repentina sospensione di uno stipendio.

Per alcuni lavoratori, essere messi il congedo temporaneo potrebbe significare licenziamento. E’ già successo a Seattle, dove una piccola azienda di catering è stata costretta a licenziare quasi tutti i suoi dipendenti a causa della sospensione delle commesse da parte di grandi clienti del settore hi-tech.

Paradossalmente sopo proprio i “colletti bianchi” a godere di maggiori tutele perché possono svolgere il loro lavoro da casa. Ma la loro assenza ha come conseguenza anche la perdita del posto e del salario per altri lavoratori, come successo a Seattle.

 

 

 

 

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