14 Maggio 2024
Gaia Lagravinese | Una riflessione sull'infelice uscita del prefetto di Ravenna, che pochi giorni dopo l'alluvione ha chiesto ai volontari di non intralciare il lavoro dei mezzi pesanti e dell'esercito
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Gaia Lagravinese

«Molto bello l’aiuto dei volontari, ma rischiano di intralciare i lavori dei mezzi pesanti e dell’esercito». Queste le parole del prefetto di Ravenna, Castrese De Rosa, affidate a un comunicato lo scorso 27 maggio. «Se non ci fossero stati i volontari a quest’ora saremmo ancora con l’acqua fino al collo», la risposta di Anna, proprietaria di una villa a Faenza che a due settimane dall’alluvione era ancora sommersa dal fango.

Proprio a questa casa, e ad altre del vicinato, domenica 28 maggio hanno provato a dare una mano con secchi e pale decine di volontari provenienti da realtà politiche come Potere al Popolo e Cambiare Rotta. Chi scrive era lì e può assicurare che vedere e toccare quello che per settimane ha tappezzato gli schermi dei nostri smartphone e computer è tutta un’altra storia. Il fango denso e alto fino alle ginocchia, i cumuli di spazzatura ai bordi delle strade, le fotografie, i libri, i vestiti che sono appartenuti a qualcuno, le lacrime di quella donna, una bicicletta.

Chiedere ai volontari di rimanere a casa per non intralciare ruspe e camion è una richiesta spiazzante. Tanto più che, a detta di chi spala fango da due settimane proprio in quella casa a Faenza, mezzi pesanti non se ne sono visti, tanto meno di militari. Forse perché, verrebbe da pensare, erano impegnati in Sardegna dove, proprio nei giorni di allerta rossa fra le due alluvioni, si svolgeva un’esercitazione militare della NATO con oltre 900 mezzi e 4000 uomini. Una inversione di priorità rispetto agli interessi di una popolazione devastata dall’alluvione?

Un’ alluvione che, è giusto ricordarlo, non è un “terremoto d’acqua”, come l’ha definita il presidente della Regione Emilia Romagna Stefano Bonaccini. Non è una “fatalità”, ma ha sempre più i contorni di “strage annunciata”, frutto di decenni di politiche antropocentriche che hanno dato via libera alla cementificazione, incuranti dei naturali bisogni del suolo e finalizzate ad un suo “utile” sfruttamento.

Secondo Legambiente alla fine del 2021 l’Emilia-Romagna è terza a livello nazionale sia per incremento di suolo consumato tra il 2020 e il 2021 (658 ettari) sia per il totale di suolo consumato (oltre 200.000 ettari), dopo Lombardia e Veneto. Nella classifica nazionale dei Comuni meno virtuosi c’è Ravenna, seconda dietro Roma. Non c’è dunque da stupirsi che un suolo arso dalla siccità, edificato all’osso e sfruttato allo sfinimento non abbia potuto reggere l’impatto di un’ingente quantità d’acqua che non era pronto (e abituato) a ricevere.

Ma ora che si fa? Ci sono cose che sfuggono al nostro controllo diretto, c’è il cambiamento climatico che ha portato la più severa siccità in inverno e l’alluvione più violenta in primavera. E poi ci sono altre cose, che potremmo anche controllare, come le industrie che devono produrre, i terreni che devono essere coltivati e le case che vanno costruite. E poi ci sono troppi amministratori che dimenticano le proprie responsabilità.

Perciò, non ce ne voglia il prefetto di Ravenna, non ci resta che aiutare chi ci sentiamo di aiutare senza dar credito a chi ci vorrebbe divisi.

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