19 Aprile 2024
Maria Chiara Vietti, una delle penne de L’Antro delle Muse, racconta la sua lotta al virus e l’isolamento a cui l’ha condannata
Share

Maria Chiara Vietti

Chiusi in casa vediamo il mondo da una finestra e ci sentiamo sfortunati per non poter uscire ma fortunati perché siamo in salute. La malattia si espande come un cancro e porta via delle vite in modo brutale e disumano. Soli e segregati ci immergiamo nelle pagine di un libro che porta la nostra finestra ad affacciarsi sul mondo. Ma a volte non ci basta comunque e ci chiediamo: quando torneremo ad accumulare ricordi?

Il mondo visto da una finestra

È quasi un anno che guardo a intermittenza attraverso questa finestra. Siamo tornati in zona rossa. Non si può di nuovo uscire di casa e, in ogni caso, io non potrei muovermi perché ho preso il Covid-19. Mi sono sentita all’improvviso stanchissima sentendo come una forza oscura che resisteva ai miei sforzi. La testa era confusa, le orecchie fischiavano.

È iniziata cosi’ la lunga trafila. Il tampone rapido del medico curante, poi il tampone molecolare per conferma. Positivo. “Signorina lei è positiva al Covid 19”. Entro in autoisolamento e, dopo tre settimane, l’Asl non mi ha ancora contattato.

Le giornate passano e mi accorgo che non smetto di dormire. Quando non dormo ho mal di testa e non riesco a stare in piedi. Qualche volta mi alzo a fatica per andare a guardare fuori dalla finestra e mi rendo conto di quanto stavo bene prima e di quanto non mi senta presente ora. Le gambe mi cedono devo sdraiarmi. Mi riprovo la febbre, sempre uguale 37,5, non scende mai. Torno a dormire, è indifferente che sia giorno o notte.

L’aspetto disumano

Mi sveglio e mi sembra di essermi addormentata da poco mentre sono passate quattro ore. Accendo il televisore per vedere le notizie al telegiornale. Si parla di terza ondata. Aumentano i casi e i decessi. Mi sento fortunata a essere a casa e non all’ospedale intubata. Penso a quanto staranno soffrendo i parenti delle persone ricoverate in ospedale. Non li possono andare a trovare, non gli possono stare vicino. Alcuni muoiono soli. Senza un abbraccio, senza un bacio. Non sono un medico, mi dico che ci sono ragioni più che valide perché ciò avvenga ma non mi basta per comprendere. C’è un qualcosa di disumano in tutto questo.

Ritorno a guardare attraverso la mia finestra. Le luci accese nelle case mi fanno pensare alla vita, qualcuno starà preparando la cena nella propria cucina. Vorrei tanto poter abbracciare la mia famiglia e poter mangiare con loro ma questa terribile malattia non me lo permette. È la terza settimana che non esco di casa e che non vedo nessuno oltre all’infermiera che mi ha fatto il secondo tampone. Debolmente positiva – tampone da ripetere. Non sono ancora guarita, non sono servite nemmeno le vitamine, le aspirine e gli esercizi di respirazione.

La magia dei libri

Mi rendo conto che per due settimane non sono stata presente, ero come in standby. Dormivo, mangiavo, faticavo a parlare e niente di più. Decido di leggere un libro di Banana Yoshimoto “Un viaggio chiamato vita”. A casa sul divano parto con Banana per tanti viaggi. Siamo a Giza e poi in Sicilia, voliamo a Taiwan e ora in Mongolia. Da un rosmarino in un appartamento in Giappone arriviamo a Taormina, da una pietra di Giada finiamo a Taiwan e ci immergiamo in un mondo culturale differente dal nostro e tutto da scoprire. Possiamo sentire la primavera di Tokyo e i suoi mille tulipani fatti arrivare dall’Olanda o immergerci in distese di frammenti di corallo sulla spiaggia di Amami Oshima. Ci facciamo riscaldare dalle terme della Toscana e cerchiamo alghe mozuku ad Okinawa. Chiudo il libro e mi sento diversa, arricchita. Non è forse questo il potere dei libri? Trasportarti al di là dello spazio e del tempo.

Mi soffermo su un passaggio del libro che mi fa riflettere. “Quando moriamo non possiamo portare niente con noi, né il denaro, né l’auto, né la persona amata, né la nostra famiglia. Neanche i vestiti e gli anelli che abbiamo indosso possiamo portare. Quello che possiamo portare, invece, sono i ricordi. Sicuramente ci saranno anche brutti ricordi. Però forse quando moriamo, anche quelli si trasformano in bei ricordi. E, mi domando, accumulare bei ricordi non è forse la sola cosa che possiamo fare nella vita?”. A questa domanda mi verrebbe da rispondere “No Banana, non possiamo nemmeno uscire di casa, siamo in zona rossa”.

Come facciamo ad accumulare ricordi se non possiamo viverli? Oppure questo è solo un ricordo brutto che alla fine si trasformerà in bel ricordo? Non trovo una risposta ma adesso percepisco sulla mia pelle la necessità delle cose importanti. Il sorriso di mia sorella, l’abbraccio dei miei genitori, il bacio del mio ragazzo.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *